Cose che ci scordiamo di dire sul Cammino di Santiago

Il Cammino è una strada. Spesso in un Paese straniero, sempre in una direzione che ci porta lontano da casa: siamo ospiti e dobbiamo rispettarlo per quelli che verranno dopo di noi. Per chi lo percorrerà come noi e per chi lo percorrerà in altro modo.
Il Cammino è la sensazione di essere a migliaia di km da casa, il primo giorno. Scoperto, esposto, straniero, alla mercè della strada e del vento. Sentirsi perfettamente a proprio agio ovunque in ogni momento, quando sarai a migliaia di km da casa ma alcuni di quei km ora saranno “tuoi” perché li hai messi tu alle tue spalle, un passo dopo l’altro e ogni angolo lo amerai come se fosse il giardino di casa tua.
Il Cammino è sole e pioggia. E vento. E grandine. Perfino neve, a volte. A noi poco cambia: il pellegrino ha un solo compito. Camminare.

  

  

Il Cammino è una strada fatta di strade: asfalto, polvere, sassi, rocce, sabbia, ciottoli. Dalle foto è tutto una infinita striscia bianca che si snoda davanti alla nostra ombra. Ma non è così. Lo dimentichiamo, ma i nostri piedi lo ricordano: ricordano ogni singolo sassetto malefico che l’occhio scruta attento per evitare che il piede dolorante per le vesciche vi si appoggi sopra. Le gambe ricordano la polvere gialla delle Mesetas che le ha ricoperte appiccicandosi istantaneamente al sudore o i sassoni scivolosi dell’Alto de Erro sotto la pioggia. O la discesa sabbiosa e sassosa dall’Alto del Perdon. O le ventate di calore che arroventano le suole delle scarpe, salendo dall’asfalto nero, semi-squagliato sotto al sole. Noi ci scordiamo tutto questo e a volte ci scordiamo anche di raccontarlo a chi ci chiede “com’è il Cammino?”.

  

  

Il Cammino è acqua e fango, quando piove. Acqua sopra e sotto, fredda nel coppino e nelle calze. Caldiccia sotto la mantella in salita, che gocciola lungo la schiena e ti ricorda che sei un animale a sangue caldo, poco importa quanto piove. Sono pozze di cui puoi intuire la profondità solo sondandole col bastone. Sono strisce di fango che ti illudono di poter passare su un appoggio asciutto, ma crollano sotto il tuo peso, facendo franare ammassi di fango, acqua, cacca di mucca, foglie secche e sassetti direttamente nelle calze. Acqua e fango sono bestemmie o possono essere risate, con gli amici conosciuti da due giorni, da mezz’ora. La salita nel fango puoi evitarla, prendendo il bus o la carrettera, o puoi affrontarla e vedere che cosa ne sarà di te quando arriverai in cima. Puoi sempre scegliere di sorridere.

  

Il Cammino è un problema inaspettato: rompere il telefono, inciampare in un pezzo di filo spinato, cadere inciampando in un gradino, una vescica che non hai mai avuto e non sai come curare. Una vescica che hai già avuto, ma, porca miseria!, così grossa mai! Il Cammino è anche una soluzione per ogni persona che incontrerai, ma, alla fine, dovrai scegliere la tua e l’aiuto che più apprezzerai sarà l’abbraccio di un amico e il bicchiere di vino condiviso la sera, prima di affrontare i pensieri che ti troveranno appena toccherai il letto.
Il Cammino è la doccia senza tenda. Il bagno misto. La camerata con 3 roncadores che, come li giri li giri, russeranno sempre più forte e sempre nel tuo orecchio. Dormire 3 ore e poi non sapere cosa fare di te stessa. Voler dormire, non riuscirci nonostante la stanchezza. Voler partire ma senza svegliare tutti. E’ anche dormire benissimo, finché il pellegrino sotto di te si alza alle 4 puntandoti la sua torcia in faccia e scuotendo il tuo letto. Il Cammino è preparare tutto nello zaino la sera prima di dormire e raccogliere il resto nel sacco a pelo per portarsi tutto in cucina e fare lo zaino con calma senza rompere le scatole al mondo intero (con la dannata lucetta!).

  
Il Cammino è arrivare a fine tappa e accorgersi di aver scordato nell’ostello precedente spazzolino e dentifricio. Le pillole indispensabili. I tappi per le orecchie. Il cappello. Il bastone. Lo zaino. Come ho fatto a scordarlo?! Non ne ho idea, ma è così. Riderci su e capire come fare.
Il Cammino è beccarsi il raffreddore e la febbre, ma le gambe vanno bene e tu vai avanti… tanto è tutta questione di testa e di gambe, no?
Il Cammino è scoprire che la fatica è dolorosa. Alzarsi la mattina con le gambe rigide e le anche bloccate e non è fastidio. E’ così doloroso che ti fa ridere dal male. E’ capire che, però, non è niente di grave, ma solo il tuo corpo che ti dice che sei fuori come un balcone e, per lo meno, dopo la doccia, potresti pure farlo un po’ di stretching… Oppure è capire che se il tuo piede scrocchia e scatta a ogni passo che fai, probabilmente è tendinite e sei fregato. Ma fregato male.
Il Cammino è scoprire che il tuo corpo esiste e parla: imparare ad ascoltarlo e a rispettarlo. E’ anche scoprire che è questione per il 90% di testa: trovare il tuo ritmo, il tuo metodo, la tua soluzione. Fermarsi, riposare, curare i piedi, mangiare, bere, recuperare, concentrarsi ad ogni passo, ottimizzare, pagare lo scotto, accettare le regole del gioco, cambiare le regole del gioco.
Il Cammino è lo zaino, senza essere talebani, ma è anche lo zaino. Perché lo zaino insegna a rispettare il tuo corpo. Insegna la lezione preziosa dell’umiltà e dell’essenziale. Ti insegna che sarai più leggero se imparerai a portare i pesi della tua vita sulle spalle con leggerezza, piuttosto che fare finta che non esistano spedendoli più in là. Ti insegna che tutto quello che ti serve nella vita può pesare massimo 7kg. E ti insegna anche che la tendinite ti può venire anche senza zaino… però, allora, bisogna fare un ragionamento…
Ma il Cammino sono suole consumate, paesaggi che ti si imprimono negli occhi e torneranno da te quando li chiuderai per riposare. E’ la soddisfazione di appoggiare lo zaino accanto alla tua sedia fuori da un bar. E’ imparare la geografia disegnandola con i tuoi passi. Sono sapori e suoni diversi e nuovi. E’ dire che qualunque cosa tu mangi è buona, solo perché è cibo e tu hai dannatamente fame. E’ un sorriso, sotto a una mantella. E’ “una cerveza màs” urlato da un amico quando ti vede entrare nell’ostello a fine giornata. E’ l’abbraccio con l’amica che non vedi da solo 2 ore ma in mezzo c’è stata la salita più tosta che nemmeno sapevate essere lì. Ed è un abbraccio vero, di quelli che durano 30 secondi. E’ ridere insieme, perché la vita è bella. E’ piangere insieme, perché la vita sa essere una merda. E’ scoprire che prendersi cura degli altri è bello, fa famiglia. E’ scoprire che una lingua non importa se la sai: basta voler bene a chi la parla.

E non importa se un café con leche non è un cappuccino con la schiumetta e la spruzzata di cacao amaro e lo zucchero di canna che, se a Milano non te lo fanno così, sale la violenza: cammini già da un’ora, il cafè con leche è la manna dal cielo e la cosa più buona mai bevuta prima! E’ un abbraccio con le lacrime quando saluti un amico con cui hai condiviso tutto e non sai se mai lo rivedrai e portarsi quelle lacrime per chilometri nello zaino. E’ sentire il suono di una gaìta rimbalzare su un selciato di pietra e sorridere. E’ alzare gli occhi e vedere lo stesso cielo che ti ha accompagnato fino a lì e, nel mezzo, quel tizio dal sorriso enigmatico con bordone e cappello che sei venuto a trovare in questa chiesa di pietra. E’ ascoltare l’oceano frangersi sugli scogli e piangere. Perché la strada non va più in là.

di Sara Zanni

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