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Hakarl… ovvero imparare ad amare lo “squalo putrefatto”

Quando si parla di cucina e di tradizioni culinarie legate all’Islanda un argomento che salta sempre fuori è il ben noto Hakarl, per gli amici “squalo putrefatto”. Il processo produttivo, il gusto così come descritto sui vari siti internet e le guide turistiche, i commenti di migliaia di viaggiatori che lo hanno assaggiato, tutto fa pensare ad una puntata di “Orrori da gustare”.

Se volete saperne di più sul nostro pesciolone putrefatto avete solo l’imbarazzo della scelta, inserite Hakarl su Google e troverete tutto quello che c’è da sapere sulla carne velenosa dello squalo, il processo di fermentazione che la rende commestibile, l’essicazione, e via così fino al prodotto finito.

Quello che su internet non troverete è tutta la passione e la tradizione che c’è dietro un prodotto spesso descritto in modo ironico e troppo folkloristico.

Se avrete la voglia di fermarvi a Bjarnarhofn, dove ha sede il museo dedicato all’Hakarl, direttamente nell’azienda a conduzione familiare (di fatto le dimensioni sono quelle di una cascina) dove viene prodotto, sarete accolti dai proprietari che vi descriveranno, con un buon inglese e l’ausilio di un filmato breve ma molto interessante, tutta la storia di questo prodotto e della loro famiglia. Vi mostreranno alcuni oggetti curiosi legati alla pesca dello squalo e alla fine, ovviamente, vi inviteranno a degustarlo tagliato a cubetti.

Scoprirete così che si può tranquillamente sopravvivere all’assaggio, e allora, che il pesciolone putrefatto vi sia piaciuto oppure no, forse prenderete davvero sul serio questo prodotto così particolare la cui storia nasce tra l’altro dall’esigenza nobile di non sprecare carne abbondante ma purtroppo tossica se non adeguatamente trattata, e vi verrà anche voglia di stringere la mano al proprietario, che ha ereditato azienda e passione dal padre e prima di lui dal nonno. Prima di andarvene, se vi va, lasciate un commento sul registro. Ce ne sono molti scritti anche in italiano, e magari troverete il mio (che però è scritto in inglese) che suona più o meno così “è buono… diffidate delle guide e di quello che dicono gli altri, assaggiatelo e finirete per amarlo”. Diciamo che forse quel giorno mi son fatto prendere un po’ dall’entusiasmo del momento, ma comunque non era male.

di Stefano Neri

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